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US HWY 1 ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida, Saint Augustine. ©Andrea Pistolesi

US HWY #1. DAL CONFINE CANADESE ALLA FLORIDA

Foto di Andrea Pistolesi. Testi Andrea Pistolesi, Massimo Morello e Guido Zurlino

Era l’inverno del 1992 e io e Guido partivamo per quello che doveva essere un “on the road”diverso. Quello che poi si sarebbe rivelato come l’ultimo “assegnato” dalla storica rivista geografica Atlante. La stessa idea veniva da tre punti di vista diversi per confluire in un unico progetto: Guido, scrittore che sognava una nuova strada dopo Kerouac; Massimo, che voleva una rivista rinnovata nella tradizione; e io, reduce da viaggi dove il cartello “US1” mi sembrava un mantra.
Nella tradizione dei grandi viaggi americani la direttrice classica era da Est a Ovest, alla ricerca del tepore e la libertà californiana. La nostra era invece da Nord a Sud, sulla più antica strada del Nord America, la Route 1, o US Highway 1, che va dal confine canadese fino all’estremità della Florida, Key West, percorrendo tutta la costa orientale.
La scelta di farla in quella stagione era anche per sottolineare il passaggio dei diversi climi che avremmo incontrato: dal gelo e la neve del nord fino alle maniche corte e gli shorts delle Keys.
Un simile viaggio ci portava anche ad attraversare culture diverse: il Nord Est più progressista, le maggiori metropoli storiche del continente, inclusa la capitale federale, la tradizionalista e di fatto segregazionista Bible Belt, fino a quel parco giochi tutto americano che si chiama Florida. Facemmo anche delle brevi deviazioni mirate: nella Lowell di Jack Kerouac appunto; nell’Atlanta “nera” contrapposta alla Georgia rurale.
Anche le sponsorizzazioni che ci aiutavano nel viaggio rappresentavano il tramonto di un’era di viaggi: una TWA oramai prossima al fallimento, il tour operator Gastaldi che presto sarebbe stato assorbito da altre entità, e la nostra gigantesca Cadillac.
Ma anche in questa storia quello che fece la differenza fu il contatto con le persone che incontrammo nel nostro viaggio, il loro stupore per l’interesse che degli italiani (per molti l’equivalente di marziani) potevano avere verso le loro vite, l’innocenza di un’America pre 9/11.
Lo “spontaneous gardener” nel parco di Boston, un commosso reduce del Vietnam vicino al memoriale di Washington, i poliziotti che nel loro appostamento contro gli eccessi di velocità si meravigliavano che in Europa si potesse viaggiare a 130kmh, e non ultimo il gestore di un motel in Georgia che nell’accusarmi di aver mancato la sua strada di accesso (“you kinda missed my driveway, didn’t ya?”) rivelava tutta la diffidenza verso viaggiatori “diversi”.

Andrea Pistolesi

USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Fort Kent, US Canada border. ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Caribou .©Andrea Pistolesi

L’ULTIMO NUMERO DI ATLANTE di Massimo Morello

Per ora è andata bene. Nonostante in qualche caso mi abbiano sparato, nonostante il morso di un ragno velenoso, nonostante la malaria (due volte), nonostante fatiche, disillusioni e delusioni, angosce, ansie, paure. Nonostante tutto ciò e anche per tutto ciò, mi sono divertito molto. Sono stati effetti collaterali e sono divenuti materia narrativa di questa vita iniziata trent’anni fa.
Nel mio ultimo editoriale da direttore di Atlante, nel numero in cui veniva pubblicato il reportage sulla Highway 1, scrivevo che Atlante si sarebbe trasformato in Gulliver (rivista che avrebbe avuto grande successo e oggi anch’essa chiusa) ma io avevo scelto di reincarnarmi in Sindbad. Un passaggio cui mi sentivo quasi predestinato. Il personaggio mi affascinava sin da bambino: perché marinaio, per il senso della meraviglia, per i viaggi in luoghi fantastici, sperduti, a volte (parecchie) desolati. «Ci sarà una ragione se non ci viene nessuno» mi avrebbe detto un altro compagno di strada che avevo trascinato in una dis-avventura giustificata dal fatto che il luogo era pressoché sconosciuto.
Ma io ho continuato a cercare di perdermi per cercare di ritrovarmi. “Caminante, no hay camino, sino estelas en la mar”, “Viandante, non esiste sentiero, solo scie nel mare” recita una poesia di Antonio Machado che rientra nella mia personale antologia. È una specie di raccolta di citazioni da “narratore ambulante” (titolo di Mario Vargas Llosa, che mi vanto di annoverare tra i collaboratori di Atlante) che raccolgo come collage tra le mie note di lavoro. Come ha scritto Matsuo Basho, il poeta del XVII secolo che è stato il più grande maestro di haiku: “Decisi quindi di annotare in puro ordine sparso alcune impressioni, simili a balordaggini di un ubriaco o deliri di un addormentato, sui luoghi indimenticabili che visitavo: non datemi quindi seriamente ascolto…”.

USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Caribou. ©Andrea Pistolesi.
USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Caribou. ©Andrea Pistolesi.

Torniamo allora a Sindbad e Gulliver. La decisione di seguire le tracce del marinaio anziché quelle di Gulliver era stata piuttosto facile. Per orgoglio, per interesse o disinteresse, per arroganza, per disprezzo, per rabbia e per trovar pace. Ma il vero motivo era che non volevo più essere il mandante di viaggi altrui. Volevo essere io ad andare. A creare la mia via. Era un desiderio che avevo da che ricordavo di desiderare qualcosa e che sino ad allora avevo soddisfatto in modo superficiale, un coito perennemente interrotto. Il desiderio era diventato sempre più forte proprio negli anni in cui dirigevo Atlante. Ascoltando i racconti, leggendo le storie, guardando le foto di Andrea, di Guido, di un meraviglioso gruppo di colleghi, giovani e anziani, chierici vaganti e viaggiatori di fortuna, già famosi, che lo sarebbero diventati o che avrebbero avuto un altro destino, ma tutti animati da una straordinaria voglia di muoversi, vedere.
Come avrei pensato più tardi, quando ormai ero io stesso posseduto dagli spiriti dell’Oriente, erano tutti posseduti da Sozorogami, l’antica divinità che inquietava le persone spingendole a partire continuamente. Nella tradizione Zen esiste una figura che incarna questa categoria umana: quella degli Unsui, monaci erranti che intraprendevano un viaggio spirituale alla ricerca dell’essenza della vita e il loro vagabondare ne era la rappresentazione. In Giappone li chiamavano “nuvola o acqua viva”: il monaco non abita in nessuna parte, va, libero come l’acqua, come l’aria.

USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Lubec, US Eastmost city. ©Andrea Pistolesi

Alcuni di quei compagni di strada, sono scomparsi, altri dimenticati. Questo è anche un modo per ricordarli. Mentre li ripenso mi risuonano i versi di alcune canzoni di questi ultimi anni, I’ll see you in my dreams di Bruce Springsteen, Laughs And Jokes And Drinks And Smokes di Mark Knopfler, Almost Like the Blues di Leonard Cohen. Sono canzoni di chi ricorda altri tempi, esperienze, vite, amici, viaggi. E se vi venisse l’idea di riprendere la Highway 1, beh sarebbe l’inizio di una bella compilation.
Ma solo oggi, nel momento in cui scrivo questa introduzione per il libro di Andrea Pistolesi e Guido Zurlino, comprendo che anche dopo la chiusura di “Atlante”, se alcune amicizie si sono perdute (e quindi forse non erano mai state tali) altre si sono approfondite e ne ho trovate altre ancora. Con molti si è creato uno straordinario rapporto di fratellanza. Brotherood sarebbe il termine corretto, se non fosse stato corrotto, come tanti altri termini e forme culturali, dalle mode correnti che li hanno privati di valore (almeno per chi li usa a sproposito).
Allora, quando decisi di interpretare Sindbad, non potevo sapere come sarebbe andata a finire. Speravo bene e così sia. Tanto che in apertura di un mio blog (che non a caso avevo intitolato “Bassifondi”) avevo trascritto una poesia di Konstantinos Kavafis tanto amata anche da Andrea: “Itaca”.

USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Bath. ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Maine, Bath. ©Andrea Pistolesi

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze…
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada”.


Quello che non potevo proprio immaginare né sperare era che mettendomi in viaggio stavo prendendo “the last flight out”. In questo caso non si trattava di abbandonare il Vietnam o l’Afghanistan o qualunque altra drammatica situazione rievocata da quest’ennesima citazione letteraria e cinematografica. Però la crisi che sarebbe sopravvenuta pochi anni dopo sarebbe stata comunque grave. La fine di “Atlante”, che per me segnava un nuovo inizio, era anche il segnale della fine prossima ventura di un mondo, di un modo di fare giornalismo.

Era il giornalismo dei “cacciatori di storie”, dei “narratori di fortuna”, dei “conquistatori dell’inutile” come li chiamava un vecchio grand-reporter francese. Ricordo che amava citare un brano del Piccolo Manuale del Perfetto Avventuriero un libretto del 1920 scritto da Pierre Mac Orlan, alias di Pierre Dumarchey (1882-1970): “L’avventura non esiste. È nello spirito di chi la segue. E quando lui la raggiunge e la tocca, lei svanisce, per rinascere più lontano, in un’altra forma, ai limiti dell’immaginazione” aveva scritto quel romanziere, sceneggiatore, autore di canzoni (una delle sue interpreti era Juliette Greco), eroe della Prima guerra mondiale poeta, inviato speciale.

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USA, United States of America, US Highway 1, Washington DC, Lincoln Memorial ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Washington DC, The Mall Pond ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Washington DC, The Mall Pond ©Andrea Pistolesi

Fortunatamente ho avuto ancora il tempo di incontrare quei personaggi, d’inseguire l’avventura. Continuo a farlo, mentre lei continua a svanire a rinascere sempre più lontano. Perché il passaggio al nuovo mondo dell’informazione istantanea, ipercondivisa, non è stato qualcosa d’improvviso, brutale, piuttosto un declino dapprima lento, poi sempre più accelerato. Internet non ne sarebbe stata la causa quanto la giustificazione: avrebbe incrementato la confusione tra mezzo e messaggio. Ma ormai ben pochi comprendevano il senso della differenza evocata da quel teorico della comunicazione sofisticato e visionario che era Marshall McLuhan. E quei pochi, molto spesso, se ne servivano a loro vantaggio. La motivazione profonda, come accade quasi sempre, era di tipo economico. I giornali costavano troppo e dovevano costare sempre di meno. Dovevano guadagnare di più non aumentando il numero di lettori bensì le pagine pubblicitarie. A ripensarci oggi, tuttavia, forse non era nemmeno l’economia la causa del cambiamento. Era la progressiva semplificazione del pensiero e il suo adeguarsi a un mainstream che diveniva sempre più conformista, banale, pigro. Ignorante e orgoglioso di esserlo. A poco a poco si creavano nuove categorie, disvalori. E i giornali dovevano adeguarsi al sistema, rappresentarli e alimentarli.

USA, United States of America, US Highway 1, Washington DC, Vietnam War Memorial ©Andrea Pistolesi

Gli anni della pandemia sembravano aver sancito la fine definitiva di quel giornalismo, di quel reportage di cui Atlante era stato un magnifico esempio. Ma poi, paradossalmente, il Covid potrebbe rivelarsi davvero il nuovo confine dell’avventura, “ai limiti dell’immaginazione”. Con tutte le sue limitazioni, con la creazione di frontiere sanitarie, potrebbe segnare la fine della globalizzazione, farci tornare al mondo che lo stesso Andrea Pistolesi in un altro suo libro chiama NAG, Non Ancora Global. In realtà sarebbe un mondo post-globale, di endemia, di confini sempre più chiusi che separano realtà segnate da enormi differenze e diseguaglianze. Un mondo tribale. Che si potrebbe conoscere e comprendere solo grazie ai reportage di nuovi giornalisti.
Non so se accadrà e certo non potrei definirmi un nuovo giornalista. Ma il solo scriverne, cominciare a progettare nuovi viaggi e avventure mi fa sperare in qualche anno ancora di divertimento. Ora, forse per la prima volta da quando lo recito e lo cito, ho compreso appieno il sottile significato dell’haiku perfetto (evidentemente nell’originale giapponese), scritto da Matsuo Basho, poco prima di morire.

“Viaggiatore voglio essere chiamato
ora che cade
il primo scroscio di stagione”

Massimo Morello

USA, United States of America, US Highway 1, Washington DC, Vietnam War Memorial, War Veteran ©Andrea Pistolesi

IL RACCONTO di Guido Zurlino

Molto tempo prima di occuparmi di turismo e di viaggi, quando vivevo ancora negli Stati Uniti, raggiunsi in autostop la cittadina di Lowell, in Massachusetts, per conoscere da vicino i luoghi dove era nato e cresciuto Jack Kerouac. All’epoca, tuttavia, non mi sembrò di aver compiuto un’impresa eccezionale, perché quel modo di spostarsi faceva parte di un “certo” stile di vita e lungo le cosiddette strade blu non era difficile incontrare tanti altri che condividevano la filosofia on the road resa celebre dagli scrittori della beat generation.
Parecchi anni più tardi, durante quella nostra avventura di fine secolo (ripeterlo fa un certo effetto) lungo la U.S. Highway 1, definita anche la prima Main Street Americana, erano ancora visibili alcune reminiscenze di quell’atmosfera, ma molte cose già erano cambiate e la sensazione era quella di essere testimoni degli ultimi istanti di transizione tra due epoche. 

USA, United States of America, US Highway 1, Virginia, Richmond @Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Virginia, Richmond @Andrea Pistolesi

La crisi economica degli anni successivi, la grande diffusione di Internet e in particolare le ripercussioni scatenate dagli attentati alle torri gemelle del settembre 2001 (l’anno dell’Odissea nello Spazio) marcarono in modo definitivo il passaggio a un’altra America e a un nuovo modo di interpretare in senso generale il concetto di viaggio. Oggi persino quegli eventi cominciano a essere ricordi sfumati per tanti giovani adulti americani che all’epoca erano molto piccoli o addirittura non erano ancora nati, e lo spartiacque tra le due visioni appare del tutto incolmabile. Gli odierni nativi digitali guardano forse a quelle lontane esperienze di viaggio come a vestigia preistoriche, e se da un lato non provano il desiderio impellente di riviverle, dall’altro non avrebbero neppure abbastanza tempo per permettersi di rallentare il passo e “sprecare” giorni preziosi all’inseguimento di miti improbabili e avventure irrealizzabili. Quello che malgrado tutto rimane ancora immutato è il tracciato originale dell’antica U.S. 1, che nel bene o nel male vide verificarsi lungo il suo percorso alcuni dei momenti più significativi della storia americana. Se è impossibile ipotizzare un ritorno a quel vecchio modo di interpretare il concetto di viaggio, è perlomeno auspicabile che le immagini e le sensazioni raccolte in quei giorni aiutino in qualche modo le generazioni attuali ad avvicinarsi al suo ricordo e a mantenerne intatta la memoria. 

Era una pista indiana la più vecchia strada degli Stati Uniti.
Luoghi e personaggi lungo i 3.970 chilometri della “US ONE”.
Un fantastico viaggio in auto dal gelo del Maine al sole della Florida.

Quando vidi finalmente le onde dell’oceano che si abbattevano contro la costa scura e frastagliata del Maine non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo. Per un attimo pensai all’Anabasi di Senofonte, poi il ricordo del grido di sollievo dei soldati greci alla vista del mare svanì come la nebbia sottile che mi circondava e immaginai di essere già in prossimità di Key West. In realtà, l’isola resa famosa da Hemingway e dalle sue battute di pesca al marlin si trovava quasi 4.000 chilometri più a sud, ma dopo aver guidato per un giorno lungo il confine tra Stati Uniti e Canada in un interminabile tunnel di fiocchi di neve scagliati contro il parabrezza da violente raffiche di vento, anche la visione di un mare gelido come quello della Baia di Passamaquoddy può creare strane associazioni mentali. Che 11,4 gradi sotto zero diventassero miracolosamente 11,4 gradi “sopra” da questa parte del nastro perlaceo del Madawaska River dipendeva solo da una bizzarra coincidenza tra le scale termometriche Celsius e Fahrenheit. In realtà i due rilevamenti indicavano la stessa temperatura polare e la morsa del gelo era resa ancora più feroce da un “wind-chill factor” (fattore vento) di meno venti gradi, che sottoponeva ogni centimetro di epidermide esposta a un autentico test di resistenza artica.
Ero entrato negli Stati Uniti all’alba, calandomi nel Maine dalla provincia canadese del New Brunswick, e la vicinanza del Québec si era fatta sentire ancora per qualche ora. Le insegne dei negozi ammiccavano in francese, le pompe delle stazioni di servizio calcolavano la benzina sia in galloni sia in litri, e di tanto in tanto l’autoradio captava i programmi francofoni diretti ai villaggi che sorgevano a poche centinaia di metri da me, sull’altra sponda del fiume ghiacciato che segnava il confine. Almeno in un dettaglio i notiziari in entrambe le lingue concordavano: le condizioni del tempo. Che 11,4 gradi sotto zero diventassero miracolosamente 11,4 gradi “sopra” da questa parte del nastro perlaceo del Madawaska River dipendeva solo da una bizzarra coincidenza tra le scale termometriche Celsius e Fahrenheit. In realtà i due rilevamenti indicavano la stessa temperatura polare e la morsa del gelo era resa ancora più feroce da un “wind-chill factor” (fattore vento) di meno venti gradi, che sottoponeva ogni centimetro di epidermide esposta a un autentico test di resistenza artica. “Un americano si costruisce la casa per la vecchiaia e la vende prima della posa del tetto, trova lavoro e lo cambia, si insedia in un’area e presto l’abbandona per trasferirsi ad almeno cinquecento miglia di distanza. Così Alexis de Tocqueville descrisse più di un secolo e mezzo fa l’inclinazione del popolo americano ai grandi spostamenti. Da allora, immagini come un convoglio di carri nella prateria, due fari nella notte riflessi sull’asfalto bagnato, un autostoppista solitario sono diventati temi classici della cultura di questo Paese, una sorta di ossessione della strada riproposta dalla letteratura e dal cinema in una linea di continuità tra la disperazione dei contadini di John Steinbeck e degli okies di Woodie Guthrie e la moderna ingenuità dei protagonisti di Easy Rider e Thelma & Louise. Nel mio caso, la lunga pista che dovevo percorrere “fino alla fine” era la mitica U.S.Highway One, ovvero la strada più antica degli Stati Uniti. Era un progetto che sognavo spesso quando vivevo nel nord del New England, dove l’inverno dura cinque mesi e si sente ancora parlare di Cabin Fever, la strana sindrome depressiva che assaliva i pionieri nelle loro capanne di tronchi isolate dalla neve. 

USA, United States of America, US Highway 1, Virginia, Road Side Gas Station Shop ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Virginia, Road Side Gas Station Shop ©Andrea Pistolesi

È da quelle parti che nacque la leggenda di Paul Bunyan, il gigante-boscaiolo delle grandi foreste del Nord che compie imprese paradossali assieme a Babe, il suo inseparabile bue azzurro (naturalmente per il gran freddo). Trovavo stimolante che la “U.S 1” ricalcasse antiche piste indiane e fosse punteggiata di ricordi storici, ma soprattutto mi affascinava il fatto che, dopo aver attraversato quindici stati, la sua corsa si concludesse a Key West, in Florida, nella località più meridionale degli Stati Uniti. Il solo nome del Sunshine State, “lo Stato del Sole”, evocava immagini di evasione in un paradiso terrestre, con alte palme frondose e lunghe spiagge di sabbia bianca sullo sfondo di un caldo mare subtropicale. 

USA, United States of America, US Highway 1, South Carolina, Car Parts shop ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, South Carolina, Car Parts shop ©Andrea Pistolesi

Anche Anne, l’agente della polizia di frontiera che qualche ora prima aveva controllato il mio passaporto sul ponte di Fort Kent, doveva aver provato da ragazza lo stesso desiderio di fuga. “Durante la stagione fredda qui è tutto morto” mi aveva detto accennando col capo alla bianca fissità dello scenario. “A Natale le stazioni sciistiche sono gremite di turisti, ma per il resto dell’inverno persino le ville dei professionisti di Boston e New York rimangono sbarrate. Nessuno esce di casa e gli unici business che ‘tirano’ sono le videocassette a luci rosse e gli alcoolici”. Sessant’anni fa i suoi colleghi erano saliti agli onori delle cronache lottando contro gli importatori clandestini di booze (alcool) dal Canada, ma l’abrogazione del proibizionismo trasformò Fort Kent in una semplice macchia sulle carte stradali. Oggi sul suo ponte non transitano più finti funerali con le bare e le auto del seguito imbottite di bottiglie di liquore, ma al massimo qualche frontaliero che va a fare spesa oltreconfine. Restituendomi il documento, Anne si era stretta nelle spalle con un sorriso. Il suo cognome francese tradiva la discendenza da una delle famiglie dell’Acadie esiliate dalla Nuova Scozia dopo il rifiuto di giurare fedeltà alla corona britannica, ma ora l’unico segno visibile di quell’antico spirito di ribellione erano i fiorellini colorati che esibiva con orgoglio sul calcio di madreperla della sua pistola d’ordinanza. Seguire la costa del Maine lungo la “U.S. 1” significa dimenticarsi per lunghi tratti della presenza dell’uomo ed entrare a contatto con la forza della natura. Per avere un’idea dell’enorme varietà del paesaggio basta considerare che Eastport e Portsmouth distano in linea d’aria solo 370 chilometri, mentre le miriadi di insenature rocciose, baie, calette e fiordi che scolpiscono il litorale compreso tra queste due città si sviluppano per oltre 5.600 (più di tutta l’Italia peninsulare!). Il tratto di “One” che collega i due porti si snoda per 580 chilometri, senza tuttavia mai allontanarsi troppo da quella che i geologi definiscono una costa “sprofondata”. Nei punti più selvaggi la vegetazione è tipicamente nordica. Lunghe file di betulle dalla sottile corteccia bianco-argentata si alternano ai pochi olmi sopravvissuti all’epidemia di inizio secolo, e di tanto in tanto un faro interrompe l’orizzonte. Tra le curiosità stampate sul menù di un ristorante per camionisti presso Kennebunkport leggo che la superficie del Maine è maggiore di quella degli altri cinque stati del New England messi assieme, mentre la sua popolazione è inferiore persino a quella del minuscolo Rhode Island. Più tardi, assaporando una clam chowder bollente (la zuppa di vongole locale) nell’attesa di un’ottima aragosta della Baia di Penobscot scoprirò che Stephen King è nato e vive da quelle parti. Che si sia ispirato alla bellezza e alla solitudine di questi paesaggi spettrali per scrivere il suo Misery?

A chi sa abbastanza di America, il nome Salem ricorda decine di romanzi gotici e film dell’orrore ambientati sullo sfondo di questa cittadina del Massachusetts, ma recentemente due newyorchesi che partecipavano a un quiz televisivo non sono riusciti a far meglio che associarlo all’omonima marca di sigarette. Un terzo concorrente ha inaspettatamente ricordato che qui nacque Nathaniel Hawthorne (quello della Lettera Scarlatta), ma neanche lui sapeva che il toponimo deriva da shalom, un termine ebraico che significa pace. Ma a dispetto del nome, l’atmosfera che regnava qualche secolo fa nell’antico villaggio non doveva apparire affatto tranquilla, soprattutto agli occhi delle vittime dell’ondata di isteria collettiva che raggiunse il culmine nel 1692. Erano trascorsi esattamente duecento anni dalla serendipità di Colombo e i figli dei Padri Pellegrini stavano ancora “plasmando e non semplicemente colonizzando” la Nuova Inghilterra. In quella “vecchia”, i loro antenati calvinisti si erano scontrati con l’atteggiamento troppo tollerante di Giacomo I nei confronti dei Papisti, sentendosi costretti, come sottolineò Artemus Ward “ad abbandonare una nazione dispotica per un paese libero, dove praticare liberamente la propria religione… ma impedire agli altri di esercitare la propria”. Fustigazioni, gogne, processi sommari erano all’ordine del giorno in quello che sarebbe diventato il più democratico degli States (se non altro nel senso del partito), tanto che il Re dovette intervenire personalmente affinché si limitassero le impiccagioni dei quaccheri nei giardini pubblici di Boston. In un tale clima di paura e intolleranza era prevedibile che le favole voodoo raccontate ai bambini del vicinato da una schiava di Barbados incontrassero la disapprovazione dei benpensanti. Quando poi due cuginette particolarmente suggestionabili cominciarono a soffrire di convulsioni (sembra per aver mangiato pane contaminato da funghi allucinogeni) e accusarono alcune vicine di aver gettato su di loro il malocchio, si scatenò il finimondo. Nel giro di quattro mesi, diciannove persone (e due cani) finirono sul patibolo per stregoneria. Un ventesimo sventurato che non si decideva a dichiararsi né colpevole né innocente morì soffocato da un mucchio di pietre durante un interrogatorio, liberando i giudici dall’ardua scelta tra condannarlo all’impiccagione, come tutti gli altri rei confessi, o al rogo, come chiunque rifiutasse “diabolicamente” di ammettere le proprie colpe.

USA, United States of America, US Highway 1, Georgia, Atlanta, Highway Intersection ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Georgia, Atlanta, Traffic Light ©Andrea Pistolesi

L’opportunità di visitare i luoghi che furono testimoni di quei tragici avvenimenti nella ricorrenza del trecentesimo anniversario è stimolante, anche se devo abbandonare momentaneamente la “One” dopo il confine tra New Hampshire e Massachusetts e allargare per una ventina di chilometri verso la costa. È inverno pieno e l’invasione turistica prevista con l’arrivo della bella stagione è ancora lontana. La gente del posto mi passa accanto con indifferenza, ma non è facile ignorare un passato imbarazzante quando le autorità municipali hanno puntato tutto sulla sua rievocazione. A ogni angolo manifesti e locandine propongono visite guidate al tribunale dell’epoca, allegre escursioni in tram alla “Collina del Capestro”, itinerari delle case delle vittime… c’è persino un suggestivo Museo delle Streghe, dove ogni mezz’ora viene messa in scena una realistica rappresentazione dei processi. Mentre sto per ripartire, una coppia di turisti giapponesi mi prega di riprenderli con la loro Nikon. Nulla di più eccitante di una foto ricordo davanti ai sinistri frontoni coloniali della casa in cui il famigerato giudice Corwin “interrogava” i sospetti. Se non fosse per una piazza “particolare”, Lowell, Massachusetts (97.249 abitanti nel 1950, 94.239 nel 1970, 92.418 nel 1980), sarebbe identica a tanti altri piccoli centri ormai decaduti della provincia americana. Una periferia esterna di casette di legno con la vernice che si sfalda a riccioli dalle verande. Una periferia interna di vecchie fabbriche abbandonate con le ciminiere in mattoni rossi, testimonianze sbrecciate di un passato industriale neppure troppo recente; un downtown anonimo, con gli immancabili supermercati, il negozio di ferramenta e una banca aperta anche il sabato mattina. I pochi operai in strada prima dell’alba indossano giacconi a scacchi, berretti con i paraorecchi e vecchie Timberland acquistate prima che dall’altra parte dell’oceano perdessero la loro identità di calzature da lavoro e il loro prezzo raddoppiasse. Dietro una curva, la strada si allarga nella Eastern Park Plaza, anch’essa anonima ma per un romantico viaggiatore come me diversa tra tante altre uguali. Su un’area separata rispetto al piano stradale individuo i blocchi di marmo che stavo cercando. Sono neri, lucidi, quadrangolari, poco più alti di un uomo. Sui lati di questi monoliti, come tante steli funerarie, sono incisi i titoli e le prime righe di una diversa opera letteraria, in tutto una manciata di testi. “Quando incontrai Dean per la prima volta mi ero appena separato da mia moglie” recita in inglese la prima lastra levigata. 

È l’incipit di On the Road (Sulla Strada), il libro sacro del movimento beat, che a partire dagli anni ’60 ha spinto milioni di viaggiatori lungo le strade di tutto il mondo. In rapida successione lo sguardo scorre altri titoli: “Mexico City Blues”, “Doctor Sax”, “The Town and the City”,“Maggie Cassidy”, “Lonesome Traveler”… Su un blocco, lo scalpello ha scolpito a lettere maiuscole un nome e due date: “JACK KEROUAC – 1922 – 1969”. Chissà se i Cassidy abitano ancora al 31 di Massachusetts Street? “In qualsiasi parte del mondo un bostoniano si riconosce a un miglio di distanza.” A ribadire questa famosa affermazione attribuita a Samuel Drake è un insolito personaggio che ho incontrato in una frizzante mattina di febbraio nel Common di Boston, il grande parco che si estende ai piedi della pittoresca Beacon Hill. Basso, tarchiato, sulla sessantina, un’aria a metà strada tra un vagabondo e un intellettuale, abita nei pressi della storica collina e da trent’anni si occupa gratuitamente della manutenzione del parco. “Non che il Comune non faccia il suo dovere” puntualizza, “ma tutti vogliamo che la nostra città sia la più bella, e per essere i primi della classe è necessario impegnarsi personalmente.” Consapevoli di vivere nella capitale storica e culturale del Paese, gli abitanti di Boston non fanno nulla per nascondere il loro orgoglio, anche a costo di essere accusati di snobismo e arroganza. “Vantano sempre le loro virtù e il loro lignaggio” affermò Bertrand Russell, “ma non mi hanno affatto impressionato.” Prima di lui, Edgar Allan Poe era stato ancora più severo, definendo i propri concittadini “servili imitatori degli inglesi”. Forse intendeva vendicarsi per essere stato allontanato da un ennesimo ricevimento in preda all’alcol, o più probabilmente si limitava a criticare l’accento dei bostoniani, che non pronunciano la erre (all’inglese, appunto) anziché arrotolarne il suono come gli altri americani. “Paahk yoah kaah!” (parcheggia l’auto!) è il cliché usato per imitare scherzosamente questa pronuncia un po’ affettata, ma la scelta non poteva essere più infelice perché trovare un posteggio a Boston è quasi impossibile.

USA, United States of America, US Highway 1, Georgia ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Georgia ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Georgia, truck traffic ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Georgia, truck traffic ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Georgia ©Andrea Pistolesi

Le strade del centro ricalcano in gran parte la topografia del XVII secolo, e se lampioni a gas e acciottolati confermano il diritto della città di fregiarsi dell’ambita qualifica di “più europea d’America”, i problemi del traffico hanno raggiunto proporzioni inimmaginabili. Ingorghi e rallentamenti sono all’ordine del giorno, e quanto ai piccoli incidenti come tamponamenti e parafanghi ammaccati (per i quali è stato coniato il termine slang fender-bender), le assicurazioni parlano di primato nazionale. Sempre in grado di adattarsi a ogni situazione, i bostoniani rispondono anche a questi disagi con la stessa determinazione con cui i loro antenati scaraventavano in mare le casse di té degli odiati inglesi. Favoriti da una struttura urbana che permette di raggiungere facilmente tutti i posti “importanti”, molti lasciano l’auto a casa e preferiscono spostarsi con altri mezzi. Non è infrequente vedere studenti, impiegati e persino elegantissime segretarie (l’austera bellezza delle bostoniane è proverbiale) sfrecciare in sella a scintillanti biciclette da corsa o scivolare silenziosi sugli agili rollerblades. “Le ruote sono più alte e sottili rispetto ai normali pattini, e la disposizione allineata permette più velocità e controllo.” È il mio spontaneous gardener (come lui stesso si auto-definisce) a spiegarmelo, indicando con la testa il paio color rosso fiammante ai piedi di un ragazzo che ci passa accanto. E i meno sportivi? Per loro ci sono i soliti tassisti, anche se al sabato sera, tra le coppiette all’uscita dei teatri, capita di sentire questa battuta scherzosa: “Cara, torniamo a casa a piedi o abbiamo abbastanza tempo per andare in taxi?” Le strade del centro ricalcano in gran parte la topografia del XVII secolo, e se lampioni a gas e acciottolati confermano il diritto della città di fregiarsi dell’ambita qualifica di “più europea d’America”, i problemi del traffico hanno raggiunto proporzioni inimmaginabili. Ingorghi e rallentamenti sono all’ordine del giorno, e quanto ai piccoli incidenti come tamponamenti e parafanghi ammaccati (per i quali è stato coniato il termine slang fender-bender), le assicurazioni parlano di primato nazionale. Sempre in grado di adattarsi a ogni situazione, i bostoniani rispondono anche a questi disagi con la stessa determinazione con cui i loro antenati scaraventavano in mare le casse di té degli odiati inglesi. Favoriti da una struttura urbana che permette di raggiungere facilmente tutti i posti “importanti”, molti lasciano l’auto a casa e preferiscono spostarsi con altri mezzi. Non è infrequente vedere studenti, impiegati e persino elegantissime segretarie (l’austera bellezza delle bostoniane è proverbiale) sfrecciare in sella a scintillanti biciclette da corsa o scivolare silenziosi sugli agili rollerblades. “Le ruote sono più alte e sottili rispetto ai normali pattini, e la disposizione allineata permette più velocità e controllo.” È il mio spontaneous gardener (come lui stesso si auto-definisce) a spiegarmelo, indicando con la testa il paio color rosso fiammante ai piedi di un ragazzo che ci passa accanto. E i meno sportivi? Per loro ci sono i soliti tassisti, anche se al sabato sera, tra le coppiette all’uscita dei teatri, capita di sentire questa battuta scherzosa: “Cara, torniamo a casa a piedi o abbiamo abbastanza tempo per andare in taxi?” Non mi sono fermato a New York. Anzi, non sono neppure entrato nella City, rispettando il tracciato della U.S. 1, che fedele alla sua natura di “regina delle blue road” aggira a nord l’appendice di Manhattan del grande ventre metropolitano e supera l’Hudson River sulle arcate sovrapposte del George Washington Bridge. Sulla sinistra svettano i grattacieli del downtown, mentre alle mie spalle rimane il Bronx, o più precisamente il Bronx meridionale, con i suoi grigi caseggiati dai muri ricoperti di graffiti, punte di iceberg di un degrado che ha ingiustamente esteso la propria cattiva fama a tutta la regione a nord della Grande Mela. Al di là del fiume, la “Megalopoli della costa orientale” prosegue ininterrotta, ma geograficamente io ho già sconfinato nel New Jersey, toccando dapprima Fort Lee e subito dopo Hoboken, dove negli anni ’30 si trasferivano i gangster espulsi dallo Stato di New York per continuare a controllare la City “a vista”. I pochi chilometri che mi separano da Trenton, capitale del New Jersey e testa di ponte per il mio tuffo verso il sole, meritano una citazione se non altro perché furono percorsi dalle truppe di George Washington nella notte del 24 dicembre 1776 per consegnare agli inglesi il loro dono di natale fatto di fuoco e piombo…. [ prosegue sul volume NdR]

USA, United States of America, US Highway 1, Florida, Jacksonville, Barber Shop ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida, Saint Augustine, Highway Police Patrol ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida, Saint Augustine, Highway Police Patrol ©Andrea Pistolesi

Andrea Pistolesi preferisce definirsi un viaggiatore che fotografa piuttosto che un fotografo che viaggia. Vive tra Firenze e Bangkok da dove lavora per le maggiori riviste internazionali. Ha lavorato come fotografo per oltre trent’anni e ha pubblicato oltre cento libri fotografici e tenuto mostre personali in tutto il mondo. E’ stato un pioniere della tecnologia digitale (il suo libro “Back in Town”, una raccolta di prime sperimentazioni, fu pubblicato nel 1998) e tiene workshop in giro per il mondo.

Guido Zurlino è giornalista turistico, traduttore e interprete, ha collaborato con le maggiori case editrici Italiane traducendo oltre duecento libri e pubblicazioni, e scrivendo articoli per riviste di viaggio. Ha soggiornato per anni negli USA coltivando l’interesse per la cultura e la musica Underground e successivamente ha visitato per lavoro numerosi Paesi asiatici. Ama il blues, il Prog britannico, la musica sperimentale e le filosofie orientali.

Massimo Morello è nato in un anno del bufalo in riva all’Adriatico. Vive a Bangkok in una casa sopra il fiume Chao Phraya. Laureato in storia e filosofia. Giornalista indipendente e nomade. Queste le coordinate esistenziali di Massimo Morello. Dopo aver vagabondato un po’ ovunque, dedicandosi in particolare a viaggi avventura e d’esplorazione, negli ultimi anni si è focalizzato sulla geopolitica e la cultura asiatica. Collabora con giornali di ogni genere, è autore di guide e libri di viaggio, scrive racconti.

©2022 Andrea Pistolesi per le  foto

©2022 Guido Zurlino e Massimo Morello per i testi

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Edizione edita e pubblicata da PadPlaces www.padplaces.com

USA, United States of America, US Highway 1, Florida, West Palm Beach ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida, West Palm Beach ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida Keys, Highway 1 bridge ©Andrea Pistolesi
USA, United States of America, US Highway 1, Florida Keys, Highway 1 bridge ©Andrea Pistolesi

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