

Muholi che non ama definirsi, Muholi che ha scelto di essere semplicemente un essere umano, Muholi che ha scelto di rinunciare al suo nome femminile a favore di un nome neutro, che si possa usare, nella lingua anglosassone, senza pronomi o declinazioni maschili o femminili, Muholi che vuole essere semplicemente Visual Activist.
E’ un personaggio curioso, affascinante, con uno sguardo intenso che cattura chi lo intercetta dal vivo ma, soprattutto, quando dalla stampa fotografica sembra seguirti per interrogarti. Sì, perché mentre percorri le stanze scure a cui sono appesi i suoi lavori, se ti fermi a guardare quella foto che potrebbe sembrare una ironica combinazione di elementi e riferimenti surreali, lo sguardo magnetico negli occhi della foto successiva ti riporta indietro. Ti costringe a guardare meglio quegli oggetti quotidiani, ti costringe a leggere i titoli, le didascalie, per capire appieno il significato profondo di quegli oggetti apparentemente innocui. Pettini, mollette da bucato, tubi di aspirapolvere, copertoni diventano improvvisamente oggetti del dolore, fisico o mentale non importa, ma dolore. Il dolore di una madre costretta a servire in una casa di bianchi, il dolore di ragazzine costrette a lisciare capelli ricci e crespi, il dolore fisico della tortura coi copertoni che stringono le braccia togliendo ogni possibilità di difesa.
E quello sguardo bianco, ipnotico su quelle immagini quasi completamente nere, un po’ ti interroga e un po’ ti accusa. Ti accusa di una indifferenza che è stata, ma ancora esiste. Non solo nei confronti dei neri del Sudafrica, ma ancora negli Stati Uniti, in Europa con gente che scappa da guerre e miseria e non suscita altro che fastidio in molta, troppa gente. Ogni sua immagine racconta una storia precisa, un riferimento a esperienze personali o una riflessione su un contesto sociale e storico più ampio. Uno sguardo che denuncia, inquieta e commuove ma che invita ad andare oltre il primo livello di lettura dello scatto.
Mai come oggi c’è bisogno di un’Arte potente, che sfidi il pensiero retrogrado, che indaghi instancabilmente temi come razzismo, eurocentrismo, femminismo e politiche sociali e Muholi, che ama definirsi attivista prima ancora di artista, è tutto questo e altro ancora. Perché Muholi non si ferma alla fotografia ma i suoi mezzi espressivi sono in continua evoluzione e spazia dalla scultura alla pittura all’immagine in movimento.
Il lavoro esposto al MUDEC che, come sempre ci regala una mostra magnetica e intelligente, fa parte di una serie di autoritratti iniziata nel 2012 e ancora in corso – Somnyama Ngonyama (Ave, Leonessa Nera) – un lavoro che ha avuto riconoscimenti internazionali con esposizioni nei più prestigiosi musei. I suoi lavori, di una bellezza struggente, hanno creato movimenti d’opinione che seguono la sua voce e la nascita della sua fondazione Muholi Art Foundation per la promozione di giovani artisti neri. Ha scelto di esporsi in prima persona anche come ambasciatrice di spicco della comunità LGBTQIA
Le oltre 60 immagini spaziano dai primissimi autoritratti ai più recenti lavori realizzati durante il lockdown. La bellezza delle composizioni e il talento assoluto dell’artista sono per Muholi solo un mezzo per affermare la necessità di esistere, la dignità e il rispetto cui ogni essere umano ha diritto, a dispetto della scelta del partner o del colore della pelle o del genere con cui si identifica. Anche la preparazione dello scatto – totalmente non post prodotto – è già una performance artistica. Prepara soggetto, setting e luci, con cura meticolosa, lavorando soprattutto sui contrasti cromatici del bianco e nero e l’uso metaforico di oggetti semplici ma che, dalle sue mani, vengono quasi trasformati in carismatici complementi di moda. Ma sono i suoi occhi che guardano direttamente in camera a ricondurti alla realtà di denuncia, a superare il primo livello di lettura dell’autoritratto patinato per riportarti alla forza evocativa del messaggio.
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