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MICHELE ALASSIO, LO SGUARDO OLTRE LA FOTOGRAFIA

Giardini Biennale 12.03.2021. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©
Giardini Biennale 12.03.2021. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©

MICHELE ALASSIO, LO SGUARDO OLTRE LA FOTOGRAFIA

Foto di Michele Alassio. Testi di Claudio Marra e Michele Alassio

Gli incontri fortuiti non esistono.

Non ci si incontra per caso. Quando accade è perché in qualche modo abbiamo elaborato un insieme di condizioni che ci permettono di riconoscere qualcuno o qualcosa, di considerarlo vicino alla nostra sensibilità, se non addirittura coincidente con essa. Insomma: gli incontri fortuiti non esistono, ma le affinità elettive si.

Ed è esattamente questo che mi è venuto da pensare quando ho potuto leggere una folgorante riflessione di Jorge Luis Borges inserita in un complesso progetto editoriale del 2011,  un incontro appunto non fortuito, nel quale Michele Alassio tentava (sono sicuro che Alassio capirà come in questo caso, trattandosi del rapporto con la genialità labirintica di Borges, parlare di tentativo non costituisca un rilievo di limite, ma esattamente il contrario!) di ritrovare fotograficamente il pensiero  del  grande maestro argentino, non in maniera didascalica (anche le fotografia, a volte, possono diventare banali didascalie della scrittura) ma indiretta, metaforica, poetica, con collegamenti volutamente intricati e non immediatamente evidenti.

Le parole di Borges che hanno attratto la mia attenzione, estratte da Altre Inquisizioni, sono esattamente queste: “La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione che non si produce, è, forse, il fatto estetico”.

San Zaccaria From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©
San Zaccaria
From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©
Salute. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©
Salute. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©

Come al solito parole enigmatiche ed eleganti, misteriose ma anche chiarissime: non c’è modo più efficace di descrivere il fatto estetico, dunque l’arte, se non nei termini di un’insoddisfazione pratica, di un qualcosa che pare sul punto di svelarsi con limpidezza, senza più ostacolo alcuno, ma invece rimane oscura, almeno in parte non  detta.
Una riflessione ambiziosa, che punta dritta al cuore del problema, con un percorso logico del tutto borgesiano, ma al tempo stesso perfettamente in linea con i migliori sviluppi del pensiero estetico novecentesco: “L’arte è il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione…l’arte è una maniera di sentire il divenire dell’oggetto, mentre il già compiuto  non  ha importanza nell’arte”.
Così scriveva nel 1917 Viktor Skolovskij, esponente di punta di quel Formalismo russo, che appunto avrebbe influenzato, in maniera decisiva, le più convincenti teorie estetiche del XX   secolo.
Ecco allora: l’arte come luogo della “rivelazione che non si produce”, come manifestazione del “non compiuto”, e se questo è il cuore, questa è anche la ragione che ci ha portato inizialmente a parlare di incontri non fortuiti e di affinità elettive.
Quel pensiero di Borges circa l’“imminenza di una rivelazione che non si produce” mi ha di colpo svelato tutto il senso più autentico dell’opera di Michele Alassio. Non ci potrebbero essere parole più adeguate e più efficaci per avvicinarsi alle sue fotografie, per entrare in esse. Ripercorrendole singolarmente, anche nella distanza di anni che le differenzia e le lega ad esperienze pur diverse fra loro, torna costantemente, in maniera prepotente, questa sensazione di un un’imminenza non svelata, di un enigma consapevolmente lasciato sospeso.
È già così nella prima immagine che accompagna questo testo, un vecchio scatto degli anni Ottanta che misteriosamente accosta un frammento di affresco con una campana di vetro destinata a custodire il tempo. E poi una crepa, forse la vera protagonista di questa fotografia, che uscendo sul margine destro  pare proseguire all’infinito.
A questo punto, dovrei lasciare, ritirarmi in buon ordine, perché cos’altro di sensato si potrebbe aggiungere alle parole immense di Borges? Nulla di più giusto, nulla di più centrato, nulla se non, forse, il tentativo di tracciare una fenomenologia a posteriori che ci aiuti a comprendere come si giunge al margine, alla soglia sulla quale ogni immagine di Alassio si arresta, lasciando allo spettatore il compito di proseguire in proprio, attraversando magicamente lo specchio.

Redentore. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©
Redentore. From the «Mirages-Joking with fire» series 2021. Michele Alassio©

Un regno dell’assenza

Non è un caso che il primo genere ad imporsi nella storia della fotografia e a dominare buona parte dell’Ottocento sia stato il ritratto. Il volto e più in generale la figura umana, a conferma che la spinta a vedere riprodotta la propria effige, conservando o costruendo un’identità pubblica attraverso la certificazione prodotta dall’obiettivo è stata evidentemente irresistibile. Una pulsione poi  proseguita anche nel Novecento, incanalata lungo le strade dell’informazione e del reportage. Fotografare l’uomo e la sua presenza nel mondo è in definitiva sembrata la cosa più giusta da fare, una scelta all’apparenza talmente logica da avere prodotto teorie generali del mezzo che hanno spiegato l’atto fotografico come manifestazione del desiderio di opporsi all’azione erosiva esercitata su di noi dal tempo,  fino  a contrastare la morte stessa.
La fotografia di Michele Alassio è in questo senso anomala, spiazzante per l’accanimento (metodico verrebbe da dire) col quale evita ogni forma di presenza umana, celebrandone, in maniera quasi mistica, l’assenza totale. O almeno, questo è ciò che appare, ma forse non è così   semplice.
Da questo punto di vista il lavoro di Alassio fa venire in mente ciò che uno dei maggiori filosofi del Novecento, Walter Benjamin, scrisse ad inizio anni Trenta a proposito delle fotografie di Eugene Atget che raffiguravano una Parigi completamente vuota e deserta: «…tutti questi luoghi non sono solitari, bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi». Come dire che c’è un’assenza che non descrive un vuoto insignificante, ma una possibile prossima presenza, una condizione di attesa per qualcosa che potrebbe accadere, che incombe silenziosa pronta ad entrare in scena.
Chi utilizzerà la scala appoggiata alla scaffalatura di un archivio di sapore kafkiano che occupa la scena in End, un’immagine dei primi anni Duemila? E tutto questo è spiazzante, perché in genere la fotografia ci ha abituato alla dimensione dell’hic et nunc, del qui e ora, all’esercizio della testimonianza diretta e speculare, alla certificazione dell’evidente e non alla visione anticipata di ciò che potenzialmente incombe. Nell’insieme del lavoro di Michele Alassio c’è evidentemente una serie come Dreams & Nightmares, del 2014, che interpreta in maniera chiarissima la condizione che ho cercato di descrivere, una condizione che però, a ben riflettere, ritorna prepotentemente in tutta la sua opera (non per niente End, l’immagine citata poco sopra, appartiene alla serie Sacks del 2003), divenendone forse la marca stilistica fondamentale. Una combinazione suadente di assenza dell’elemento umano e senso di attesa in qualche modo coincidente con le parole utilizzate da De Chirico per descrivere il mistero della pittura metafisica: “una profondità abitata”. Ecco, anche le fotografie di Alassio sono  profondità  abitate, abitate non fisicamente ma concettualmente, luoghi carichi di suggestioni in parte destinate  a  non svelarsi e che lasciano trasparire l’imminenza di  qualcosa.
Un orientamento di poetica che ritorna trasversalmente, ma che a parte le occasioni più esplicite (il già citato Dreams & Nightmares, o lo stesso J.L.B., il lavoro ispirato da Borges) si dimostra decisivo in situazioni che non ci si aspetterebbe di vedere affrontate in questo modo. È il caso di Next Stop, la serie ricavata da un percorso all’interno della Biennale veneziana del 2003, a confronto con un’arte che, come ha scritto lo stesso Alassio in una nota inserita nel relativo catalogo, è sempre meno visiva e più comportamentista, un’arte da attraversare e nella quale muoversi seguendo racconti, ascoltando musiche e narrazioni.
In casi come questi, di fronte all’arte, in genere si chiede alla fotografia di illustrare, di documentare con eleganza, magari di dare rilievo ad un punto di vista particolare, accumunando il lavoro del fotografo a quello del critico che sceglie una chiave di lettura. Alassio ci pare invece essersi mosso diversamente, senza pretese di documentazione ma nemmeno di interpretazione. Ha individuato un climax e ha cercato di inseguirlo, fermandosi però ancora una volta al margine dell’abisso. Non è un caso che in varie immagini della serie, ritorni il tema della porta, dell’ingresso, del varco, così come appare nel racconto dell’installazione luminescente di Carsten Holler.
In questo senso Alassio ha come doppiato l’opera, ne ha riproposto l’esperienza, fotografando sensazioni più che cose, aprendo a quella dimensione della “profondità abitata” cui tutta l’arte tende o dovrebbe comunque tendere.


Sintra, Portugal
From the «Jorge Luis Borges» series- 2011. Michele Alassio©


Palazzo Grimani
From the «Jorge Luis Borges» series- 2011. Michele Alassio©


Villa Pisani
From the «Jorge Luis Borges» series- 2011. Michele Alassio©

Un tempo ossimorico

Dopo l’anomalia prodotta dall’assenza di figura umana, c’è un altro elemento spiazzante  che  la fotografia di Michele Alassio mi pare proporre con evidenza: quello di una temporalità strana, indecifrabile, difficile da definire facendo ricorso ai consueti parametri del caso. In genere, questo fondamentale elemento della fotografia oscilla tra il limite dell’istantaneità e quello della posa, finendo per caratterizzare tipologie fotografiche ben definite: l’idea della realtà colta al volo, nella folgorazione dell’attimo irripetibile (il mito dell’instant décisif divulgato da Cartier-Bresson), e quella del congelamento eternizzante che invece letteralmente astrae il soggetto fuori dal mondo.
Nessuna delle due categorie pare utilizzabile nel caso di Alassio. Nelle sue immagini non c’è posa, almeno nel senso tradizionale del termine, non c’è l’idea di un set preparato, non c’è una messa in scena, e dunque non interviene quel tempo lungo, artificiale, tipico di questa modalità di ripresa.
Le fotografie di Michele Alassio sono tutte colte dal vivo, sono situazioni reali e non costruite. In definitiva il suo è il classico atteggiamento del cacciatore, però appunto risolto in maniera anomala e del tutto originale.
L’interpretazione classica di questo ruolo ci riporterebbe infatti a Cartier-Bresson e alla frenesia dello scatto rubato, ben descritta dall’autore francese nei termini di un avvicinamento alla propria preda “à pas de loup”, con passo leggero e felpato, pronti a folgorare l’attimo che solo conta. Nel caso di Alassio verrebbe invece da dire che il passo è pesante, evidente, calato con forza e non di nascosto in mezzo alle cose.
Nel suo modo di concepire la fotografia si percepisce una relazione lunga, una sorta di presa di coscienza dilatata, che poi certo si risolve nello spazio di uno scatto, ma senza l’esaltazione e l’ossessione del dover cogliere un qualcosa di irripetibile concentrato nella frazione di un secondo. In tutto il corpus del suo lavoro emerge piuttosto la sensazione che l’attimo è di per sé insignificante, magari curioso e sorprendente, ma appunto senza durata, senza spessore, mentre al contrario ciò che conta è il divenire, la durata.
Qualcosa che parrebbe geneticamente preclusa alla fotografia, ma che invece il lavoro di Alassio genera in maniera potente, non suggerendo mai la sensazione del ritaglio fugace ma piuttosto quella della dilatazione sacrale, del coinvolgimento in una dimensione prolungata, di spessore, carica di emozioni che non si bruciano in un istante.
Il tempo fotografico di Alassio è alla fine un tempo ossimorico, contraddittorio: quello di un’istantanea che racconta un tempo infinito, o se vogliamo, al contrario, quello di un tempo lungo concentrato in un’istantanea.
O addirittura, come proposto in The Dream of the Greek, un tempo oniricamente collassato, ove presente (il paesaggio, lo scatto istantaneo) e passato (la maschera scultorea, il tempo lento) si mescolano e si sovrappongono armoniosamente.

"End" Civil Hospital of Venice, the register of Radiology, 1983 Plotter print on Hahnemühle Baryta Paper, edition of eight. Michele Alassio©
“End”
Civil Hospital of Venice, the register of Radiology, 1983
Plotter print on Hahnemühle Baryta Paper, edition of eight. Michele Alassio©

Il ritorno dell’aura

La cultura fotografica di paesaggio che ha dominato la scena italiana e internazionale negli ultimi due decenni, ha sviluppato la convinzione che, diversamente dalla pittura, una sola fotografia possa dire poco del proprio soggetto e che dunque ci sia necessariamente bisogno di una sequenza articolata di immagini ripetute e insistite, per riuscire a dare il senso del lavoro che si sta svolgendo.
Probabilmente questa visione si ricollega a categorie generali del mezzo per le quali l’autentica natura della fotografia non sarebbe certo quella dell’unicum, dell’immagine assoluta, ma piuttosto quella dell’accumulo, dello scatto multiplo, della ripetizione. Il lavoro di Michele Alassio si è sempre mosso in direzione inversa, costruendo serie e progetti con poche calibratissime immagini. Una scelta che si percepisce non scaturita da una generica presunzione di valore (pensare di favorire la qualità rispetto alla quantità), bensì da una concezione particolare dell’atto fotografico, vissuto come condensazione e accumulo di suggestioni in una singola immagine, che in questo modo si intuisce provenire da un percorso lungo, complesso, in qualche modo sofferto, ma proprio per questo carico di emozioni. Si tratta di una strada teoricamente difficile, se vogliamo, anche irta di rischi, perché in definitiva finisce per scontrarsi con quel principio di “perdita dell’aura” che viene considerato uno dei capisaldi intoccabili dell’identità fotografica.
Come è noto, è stato il già citato Walter Benjamin ad elaborare tale nozione, attribuendo proprio al carattere di non unicità della fotografia (sia in versione analogica che digitale, il principio della riproducibilità infinita è incontestabile) la responsabilità del dissolvimento di quell’alone distanziante e in qualche modo sacrale (indicato appunto col termine di “aura”), che caratterizzerebbe l’opera d’arte tradizionale, rendendola oggetto unico e irripetibile. Su questi concetti la fotografia di Michele Alassio lancia una bella sfida.
La parsimoniosità di scatti che abbiamo appena descritto, unita agli  altri  caratteri  precedentemente messi in luce (la temporalità dilatata e l’idea di profondità abitata) indubbiamente producono una fotografia di forte auraticità: densa, sacrale, distanziante. Ma distanziante in senso positivo, perché per vedere effettivamente il mondo, per avere coscienza del senso profondo delle cose, non ci si può schiacciare su di esse, occorre allontanarle, celebrarle, riportarle a quella condizione auratica che la ripetitività del quotidiano ha sottratto loro.
Questo recupero dell’aura non significa però che il lavoro di Alassio neghi la propria natura fotografica. La matrice rimane quella. Giocare su un numero limitato di scatti meditati e ricercati non significa fare della pittura. Significa piuttosto giocare una carta difficile, significa fare un uso non consueto del fotografico, pur continuando ad utilizzarlo nella sua vocazione primaria di confronto con la realtà. Volendo riferirsi ad una categoria classica della storia dell’arte si dovrebbe dire che il suo è una sorta di realismo magico (ancora un ossimoro!), è la ricerca del mistero e dell’inconsueto a partire da ciò che è familiare. È lo sguardo diverso, spiazzante, come quello vertiginoso, dal basso in  alto,  realizzato all’interno di Palazzo Grimani, uno sguardo anomalo che riesce a trasformare (non falsare!) la realtà di quello spazio, proiettando verso l’infinito la scultura di Ganimede rapito dall’aquila di Giove.

From the wrong side. Serie Rebus. Biennale Arte, October 2017 Plotter print, variable size, edition of 6. Michele Alassio©
From the wrong side. Serie Rebus. Biennale Arte, October 2017
Plotter print, variable size, edition of 6. Michele Alassio©

Una camera chiara?

 Cercando di raccogliere il senso finale del lavoro di Alassio, a partire da quanto fin qui scritto, verrebbe voglia di dire che difficilmente per lui la “camera è chiara”. In realtà, se vogliamo guardare al significato che Barthes stesso ha dato a questa espressione, ponendola a titolo del suo celebratissimo libro, dobbiamo subito contraddirci perché, come abbiamo già evidenziato in precedenti passaggi, Michele non rinuncia mai all’idea di fotografia come confronto diretto col mondo, come registrazione di un’evidenza, di qualcosa che c’è, che da qualche parte esiste. E questo, appunto è ciò che intendeva Barthes parlando di chiarezza della camera. Ma se invece vogliamo dare all’espressione un significato meno filosofico e più consueto, allora è giusto dire che mai, praticamente mai, per Alassio la camera è chiara.

Venice, Train Station, November 2016. Serie Rebus. Plotter print, variable size, edition of 6. Michele Alassio©
Venice, Train Station, November 2016. Serie Rebus. Plotter print, variable size, edition of 6. Michele Alassio©

Non è chiara perché volutamente complessa, densa, profonda.  Una condizione, dunque, non subita ma ricercata, ostinatamente inseguita fine a farne il cardine fondamentale della propria poetica, ulteriormente confermato, infine, da una strategia sulla quale non ci siamo ancora soffermati. Molte immagini di Alassio esplicitamente procedono per sottrazione, per cancellatura, per oscuramento. Anziché inseguire il dettaglio e il tutto evidente, marciano con decisione in senso opposto. Le immagini dedicate a Venezia, perfetta quella scelta qui nella selezione di apertura, ne sono un esempio emblematico. Le architetture, i profili dei palazzi, i ponti e le calli emergono sempre a fatica da condizioni di luce incerte, da penombre magiche, o magari si intravvedono con difficoltà annegati in una nebbia poetica più che meteorologica. Per questa, ma anche per altre serie, si dovrebbe allora dire che la fotografia di Alassio, più che scrittura con la luce, come l’etimologia impone, è scrittura col buio, un buio sapientemente usato per generare incertezza e straniamento, un buio dal quale infine emergono suggestioni e tracce di un mondo improvvisamente diverso. Il mondo di una rivelazione imminente.

Claudio Marra

Passo Giau Belluno, August 2016. Serie Confidence Edition of five, variable sizes. Michele Alassio©
Passo Giau
Belluno, August 2016. Serie Confidence.
Edition of five, variable sizes. Michele Alassio©


The Dream of the piano.
From the «Dreams&Nightmares» series – 2014. Michele Alassio©


The Dream of the Greek.
From the «Dreams&Nightmares» series – 2014. Michele Alassio©


The Dream of the Architects.
From the «Dreams&Nightmares» series – 2014. Michele Alassio©

Bio

Michele Alassio è nato a Venezia il 23 agosto 1956. Come fotografo professionista ha lavorato per Bell’Italia, le edizioni Franco Maria Ricci, Marsilio Editori, Atlante, il gruppo Condè Nast e segnatamente per Vogue Italia, Uomo Vogue, Vogue Gioielli. Si è dedicato alla riproduzione di opere d’Arte per la Sovrintendenza del Veneto, il Museo Armeno, il Museo Archeologico di Aquileia, come per gallerie e collezionisti privati. Ha lavorato come fotografo, direttore della fotografia e regista per Vogue Italia, Uomo Vogue, Elle, Lui, Vanity Fair e direttamente per campagne per Alberta Ferretti, Renè Caovilla, Ermenegildo Zegna, Lorenzo Rubelli, Al Duca D’Aosta, Giorgio Armani, Ungaro, De Beers, Sent, Domus, ed altri. Intensissima anche la sua attività artistica ed espositiva al massimo livello sia nazionale che internazionale. Un esaustivo elencosi può trovare qui 

Michele Alassio vive a Venezia ed è rappresentato in tutto il mondo dalla Barry Friedman Ltd. di New York.

Possiede tre sit web: uno dedicato alla attività professionale e artistica nella sua totalità; un secondo dedicato a tutte le immagini realizzate a Venezia;  un terzo dedicato alla serie sul primo lockdown, realizzato in collaborazione con Banca Generali, i cui ricavati in termini di vendite sono interamente devoluti in beneficenza. Il video della home, realizzato da Michele Alassio, si pregia della colonna sonora messa a disposizione gratuitamente, una volta visionato il video, dal celeberrimo compositore Estone Arvo Part


Reichstag
Berlin, August 2016. Serie Confidence. Michele Alassio©
Edition of five, variable sizes


San Giorgio, 7.04.2020
Edizione di 55 copie complessive, 50 nel formato 40×30 cm e 5 nel formato dal 70×50 cm o superiore. Serie Our Darkest Hour. Michela Alassio©


Procuratie Ducale, 4.4.2020
Edizione di 55 copie complessive, 50 nel formato 40×30 cm e 5 nel formato dal 70×50 cm o superiore. Serie Our Darkest Hour. Michele Alassio©

Nel mese di aprile 2022 ha inaugurato Venicephotogarphy, un nuovo spazio di cui è Art Director che raggruppa quattro professionisti –Michele Alassio- Paolo Della Corte – Marco Ferrari Bravo – Roberto Bernè come soci fondatori, in uno spazio espositivo a Venezia, continuativamente aperto, che propone le opere di Alassio e Della Corte con un sistema di illuminazione autoprogettato e costruito su misura assolutamente inedito, che si può ammirare qui sotto. Cliccare sulle immagini per ingrandirle.










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